Inoltre, il nome “Luna Marì” è stato registrato come marchio per la produzione di abbigliamento, gioielli e cosmetici. Questa mossa ha trasformato la bambina in un vero e proprio brand, amplificando il dibattito sull’uso commerciale dell’immagine dei minori da parte dei genitori.
Il caso di Luna Marì è emblematico di un fenomeno più ampio, quello dei baby influencer. Si tratta di bambini che, spesso attraverso i profili social dei genitori, pubblicizzano prodotti, raccontano la loro quotidianità o si esibiscono in performance. Questo modello di business, in forte crescita, porta con sé diversi rischi e pone questioni importanti:
La costante esposizione mediatica compromette la privacy del minore, che potrebbe non essere in grado di comprendere le conseguenze a lungo termine. Una volta online, foto e video sono impossibili da eliminare completamente.
Sebbene non sia un lavoro tradizionale, l’attività di baby influencer può generare notevoli profitti. Si discute se questo possa configurarsi come una forma di sfruttamento, soprattutto se i guadagni non vengono tutelati per il futuro del bambino.
La pressione di mantenere un’immagine perfetta, l’esposizione al giudizio del pubblico e la potenziale perdita di un’infanzia “normale” possono avere un impatto negativo sulla salute mentale del minore.
A differenza di altri Paesi, come la Francia, l’Italia non ha ancora una normativa specifica per regolamentare la figura del baby influencer. Esistono tuttavia alcune proposte di legge che mirano a introdurre regole più severe per l’esposizione dei minori sui social network, tutelare i guadagni generati dai contenuti, spesso prevedendo l’accantonamento di una parte in un fondo a cui il minore potrà accedere solo al compimento della maggiore età.
Nel frattempo, la tutela dei minori sui social ricade principalmente sulla responsabilità dei genitori e sulle disposizioni del Garante della Privacy, che può intervenire in casi di violazione dei diritti del minore.